“Lo strascio di uno scandalo” Fanfulla della Domenica

An account of the scandal surrounding the coronation of Corilla at the Capitol in Rome.

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Author:
Crocioni, Giovanni
Date Written:
 
Language:
Italian
Publication Title:
Fanfulla della Domenica
Article Title:
Lo strascio di uno scandalo (secolo XVIII)
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Publisher:
 
Place of Publication:
Roma
Date Published:
1903

Text:

Scandalo: l'incoronazione di Corilla Olimpica in Campidoglio, seguita il 31 agosto 1776; strascico: il provesso a carico dei satiristi anonimi.

Non ridesteremmo noi certo le vecchie memorie; non ne avrebbe l'Ademollo composto un ponderoso volume (1), se Corilla, misero avanzo di più o meno ignobili amori, non avesse in quel momento simboleggiata un'idea, e non fosse stata l'insegna di una battaglia. Povera insegna, da scorare il più ardito capitano! funestsa battaglia, cui fu sconfitta la stessa vittoria!

Morto da poco il pontefice Clemente XIV, che aveva osato sopprimere la compagnia gesuitica, le più immonde satire tentarono di contaminarne la tomba e la memoria. Ma lo spirito del pontefice non era morto con lui: più onesti poeti ne esalatrono i meriti, non meno rabbiosamente degli altri addentando i rivali. Fiera contesa che turbò le cosciene dei timorati, la serenità del conclave e il gaio vivere dell'eterna città.

In un codice di quel tempo (2) trascritto da un arciprete, trovarono onesto rifugio, fra l'altro, quattro sonetti in lode di Clemente.

Povero papa! Cogli "orrendi segni" di "morte sì atroce", salito al cospetto di Dio, si duole vittima "d'una fiera pessima e feroce"; indi esalta l'opera sua:

"Regnai nel tempo più tremendo e rio,
Le grandi ire dei re vinsi e sedai;
Amoroso all'estraneo e al popol mio,
Fui più padre che prence in tnati guai….
Portogallo, Avignone e Benevento
Per me tornando alla concordia usata,
Mostran s'io vissi alle bell'opre intento.
Eppur morii di morte aspra e spietata!"

Alla voce del pontefice rispondevano in terra quelle dei poeti, che chiamavano "opera pia" la soppressione in causa della quale "un'empia mano aveva apprestato il veleno" a Clemente!

Ma l'acerba contesa non poteva intristire sotto le penne dei poeti soltanto: pungeva troppo gli spiriti il timore della rivalsa! In simili frangenti, ogni giunco è una spada, ogni bruscolo diventa proiettile. Anche Corilla, fortunata improvvisatrice, in odio ai gesuiti che le avevano, tempo innanzi, dato lo sfratto da Roma, poté elevarsi ad insegna! Coronata d'alloro nel serbatoio d'Arcadia, stretta per vincoli innominabili a letterati e a patrizi, celebrata sopra tutti i poeti, perché non avrebbe potuto aspirare, come il Petrarca, come il Tasso, come il Perfetti, alla corona capitolina? Detto fatto. In un subito sono in campo le brighe più losche, i più sconvenienti maneggi: si abbindola la frolla Arcadia, si piega il renitente pontefice, Pio VI, si traviano le intelligenze più rette, si apre la strada al trionfo. Le satire piovono da ogni parte: le satire latine e italiane, nobile e plateali, ironiche, sarcastiche, laceratrici. Come altrettanti rivoli scendenti giù per le chine dei sette collil, confluiscono in una corrente impetuosa, che tutto allaga e travolge. Nessuno è risparmiato: non Corilla, non il Pizzi, gran custode d'Arcadia, non il pontefice. Ma il trionfo s'appressa ugualmente; né riescono a stornarlo i libelli più atroci.

Tra le satire immonde che il nostro codice conserva, quasi tutte edite dall'Ademollo, una ve n'è, intessuta di verità e di menzogne, nella quale, con diabolica imagine, si finge che Corilla se la pigli col Pizzi strenuo prpugnatore della Incoronazione (3). È l'ultima prova del sarcasmo.

"Dies irae, dies illa,
L'afflittissima Corilla
Che si lagna, piange o strilla.
Pizzi iniquo, maledetto,
Tua mercé già già m'affretto
Al ferale cataletto.
Ah crudele! ah scellerato!
M'ha ridotto questo stato
D'avarizia il tuo peccato.
Tu sol fosti che inventasti
Nobiltà, corona e fasti,
Tu che mi sagrificasti.
I miei vizi, i miei difetti
Di canzoni e di sonetti
Oggi son solo gli oggetti".

La sventurata Corilla prosegue narrando, vere o false che siano, le sue prodezze, enumerando le satire fatte sul conto suo, e augurando, in ultimo, al Pizzi di andare

"Nell'oscuro, basso regno
A soffrir di Pluto il sdegno.
Colaggiù nel cupo averno
Per decreto almo, superno,
Per star ivi in sempiterno. Amen!"

Con tutto ciò l'incoronazione fu fatta: di notte, alla chetichella, senza fasto, senza intervento di personaggi e di dame; ma fu fatta. Il partito antilojolitico riportava anche questa, ahi! ben magra, vittoria! Se ne dolsero i buoni quiriti, come di uno sfregio recato alla maestà del Campidoglio, alla dignità delle lettere; e la pleiade dei poetastri seguitò a sbizzarrirsi in nuove satire più aspre delle prime, per la sconfitta patita. La corte papale, tratta pur essa nel fango, omai stanca di quell'immonda gazzarra, sguinzagliò i bracchi suoi più scaltriti, e riuscì a por la mano sopra i colpevoli, intenti a preparare un dramma satirico sulla incoronazione di Corilla. Fossero due o tre gli arrestati, fattto è che, liberati gli altri, colpevole principale fu ritenuto un tale abbate Roberto Pucci nobile da Montepulciano; e che se ne fece regolare processo. L'Ademollo non riuscì a ritnracciarlo ma il nostro codice così ne narra: " Fabbricatosene il processo e questo compilato, venne proposta simil causa che dalla Cong.ne Criminale del Tribunale del Governo fu risoluta colla pena ordinaria contro ambedue. Gattasene di ciò da Mons. Governatore la relazione alla Santità di N.S. Pio VI, dalla benignità del S.P. loro venne commutata tale condanna in quella della galera perpetua, dove furono subito trasmessi". Per quattro parolette in rima, contro un fiore di castità di quel genere, la pena di morte "pena ordinaria", poi la galera, vita naturale durante! Non si scherzava, allora!

Il povero abbate da Montepulcinao, in vincula coniectus, fece senno, si ricordò della clemenza di Pio, ricercò la sua lira, e ne trasse, meno profano del primo (che ora ci sembra imputabile proprio a lui!) un altro dies irae, il vero congedo di quella tragicommedia, che per varie ragioni, letterarie e non letterarie, non pare indegno d'essere segnalato:

"Dies ires, dies illa
Fu per me, quando Corilla
Riportò serto che brilla.
Se Corilla in Campidoglio
Non saliva, nell'imbroglio
Non sarei del mio cordoglio.
In galera condannato,
Purgar debbo il mio peccato,
Della vita tutto il fiato,
Qui di ferro la catena
Che la mano l'alza appena,
Mi tormenta piedi e schiena.
Qui dell'acqua, caldo e vento
Tutto soffro il gran tormento,
Né mi giova il pentimento.
Qui gl'insetti più schifosi…
Qui la sete, stenti e fame…
Qui la stoppa non curata,
Qui la lana non purgata,
Tutta veste la brigata.
Qui si dorme ammonticchiati
Su de' panchi e tavolati,
Chi vestiti e chi spogliati.
E qui il fischio ed il bastone
Sveglia e chiama le persone,
Nè vi regna la ragione.
Il mio capo è già tosato,
Il mio corpo è già piagato,
Già mi manca lena e fiato…
Noti fui solo a scriver male
Di Corilla…
Dei romani la più parte
Scrisse contro doppie carte…"

A questo punto lo sventurato poeta, con accenti che richiamano quelli di Jacopone prigioniero in Palestrina a Bonifazio VIII, promette di scrivere solo di Dio e della fede, e chiede perdono. Il benigno pontefice, sedato il momentaneo tumulto poetico, con facile e non pericolosa clemenza, assolse il colpeovle pentito, e lo rimandò in libertà. Così atteseta il nostro codice.

Altre satire ed altri sarcasmi, Pasquino e Mafforio profusero sul mercato della maldicenza; ma noi non ne faremo altrimenti menzione, paghi di aver resa nota la raccolta del codice Anselmi, segno non dubbio che quella tempesta, sia pur di parole, non si dileguò, come una rosea nuvoletta al vento, ma sparpagliò i detriti della nuova tenzone per le nostre contrade!

Risonava omai per l'Italia ben più alta voce di poeti, che copriva i fiochi vagiti di Arcadia, seppellendola nel mare morto della dimenticanza e del discredito universale!

Giovanni Crocioni

(1) A. Ademollo, Corilla Olimpica, Firenze, C. Ademollo & C. editori, 1887.

(2) Codice carteceo, legato in tutta pelle, contenente molte poesie di vario genere e di vari autori. Fa parte della ricca collezione posseduta dal n. u. cav. Anselmo Anselmi di Arcovia.

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