- Performer Name:
- Tommaso Sgricci
- Performance Venue:
- Performance Date:
- Author:
- Tiriano, Daniso
- Date Written:
- 20 May 1817
- Language:
- Italian
- Publication Title:
- Biblioteca italiana, o sia Giornale di letteratura, scienze ed arti
- Article Title:
- Corrispondenza straniera. All’ornatissimo Sig. Giuseppe Acerbi
- Page Numbers:
- 304-311
- Additional Info:
- August 1817 issue (No. 7)
- Publisher:
- Place of Publication:
- Milan
- Date Published:
- 1817
Text:
[304] Dall'Austria, 20 maggio 1817
“Est Deus in nobis, agitante calescimus illo.”
Ovid.
Se allorchè dello Sgricci trattando l'anonimo nostro: Morte sia, disse, agli improvisi, e bando perpetuo agli improvisatori tutti, data avesse di fuga un'occhiata al passato; visto quanti v'ebbero in Italia improvisatori di nome, e quali uomini li levassero a cielo, sospesa avrebbe la sentenza, e forse perdonato ai cattivi in riguardo de' buoni. E come no? Mosso se gli sarebbe innanzi pel primo il comun padre Adamo, che al suo trovarsi bello e fatto in mezzo all'Eden deliziosa, cantò le lodi del Dio Fattore, e cantò certo all'improviso, non avendo in quell'ora ultimati nè principiati i suoi studi. Nè altrimenti cantarono per gran pezza que' fra di lui nipoti, che d'estro forniti e di musico orecchio, scossi veniano da subitano evento, o da veemente affezione infiammati; avvegnachè non dubbio figlio della sensibile natura è in questi casi il parlar d'improviso. Così in fatti cantò sulle sponde del retrogrado mare l'Ebreo Duce al rovesciarsi de' flutti sull'egiziane quadrighe: così cantarono Debora, Giacobbe, Giuditta; così tra le fiamme gli ardenti fanciulli, e così mai sempre i profeti da Dio inspirati. Vivono i sublimi loro estemporanei, e sfidano al confronto le studiate odi di Flacco, di Pindaro e d'Alceo. E voi ben sapete, coltissimo amico, portare opinione non pochi ellenisti che improvisati fossero i poemi medesimi del grande Omero.
Ma facendoci ad epoche meno vetuste, come mai scorto non avrebbe l'anonimo quel portentoso Archia che attonito rendeva un M. T. Cicerone col suo dicere ex tempore, e su d'ogni argomento magnum numerum optimorum versuum? Come non avvertire egli i Bardi, gli Scandinavi, gli Arabi, i Provenzali, improvisatori per genio e per mestiere? Coevo del mondo è l'improvisare, e riserbato era ai nostri giorni il presentarsi in campo un ignoto paladino che a visiera calata attaccasse da solo l'arte e la natura, i secoli e le nazioni. Tra queste la da lui presa di mira essendo unicamente la nostra, eccoci a difenderla.
Confesseremo che volendosi impugnare gl'improvisi, è in Italia che conviene attaccarli. Tranne i profeti, tutti gl'improvisatori la cedono agl'Italiani; ed è oggimai nell'Italia sola concentrato questo [305] raro talento. Scorriamo di volo i letterarii fasti della patria a noi più vicini, e vedremo quanta sia la gloria nostra, e quanto il torto dell'avversario.
Ecco nel XVI secolo improvisare un Leoniceno maestro del card. Bembo, ecco un Fileflo filologo di prima sfera, ecco un Pico della Mirandola, mostro d'ingengo e di sapere; e se crediamo alla fama, un Leonardo da Vinci, un Bramante da Urbino e lo stesso Raffaele. Vengono in seguito l'Alamanni, coltissimo poeta, il card. Antoniano, il più dotto uomo del suo secolo, poi il lepido Lasca, e quel Pulci delizia di Michelangiolo, e lo Strozzi, e l'Accolti, e il da Fano, e li due Brandolini, dell'uno de' quali diceasi superare Apollo ed Anfione nel toccare la cetra (Tirab. stor. let. vol. IX). Celebrato pur troviamo a que' tempi un Ghelmi, un Sassi, un Pero, un Franciotto, un Caroso, un Grandi, i quali tutti, al dire di Marco Sabino, che intesi gli aveva più volte, "riempivano i petti di ci gli udiva non di minore piacere che di stupore" (ibi). E quali e quante chiarissime donne codesta palma non contesero ai più rinomati cantori? Registrati sono i loro nomi in un cogli onori che ad esse resero le italiani corti, chè sola non fu la coronata Corilla ad ottenerne. Ci rivolgiamo noi al secolo prossimo passato? Quale dovizia non ci porge d'ottimi improvisatori? Ivi un cav. Perfetti, un Frugoni, un Rolli, un Vanini, un Bimbi, un Lucca, un Zucchi, un Corvesi, un Gianetti, un Cristiani, un Serio, un Bertola, un Berardi, un Pignotti, senza contare i superstiti che taccio, bastando all'uopo mio la metà dei già rammentati.
Ma volgo eran forse que' che gli applaudivano? Lo fossero anco: Ci ripeterebbe il gran Metastasio che senza il voto del popolo all'immortalità non si giunge. Ma ben altro qui abbiamo che volgo ed anonimi. Se gli involavano a vicenda codesti cigni le corti d'Uurbino, di Mantova, di Ferrara, di Parma, di Napoli, di Toscana, di Roma, quando spelndida guerra si facevan d'ingegni. Gli accarezzava un Leone X, un Sisto, un Pio IV, un Lorenzo il Magnifico, un re Mattia Corvino, ec. ec. Ed in quai tempi, amico? Allorchè l'Italia vantava gli Ariosti, i Tassi, i Caro, i Casa, i Molza, i Bonfadii, i Pontani, i Guarini, i Cotta, i Navageri ed un Cortesi, un Cardano, un Giraldi, un Castelvetro, un Pierio, uno Stanga, un Fiorenzuola e più altri di questa lena. Trovatemi chi tra codesti aurei scrittori movesse discorso contro gli estemporanei poeti? Che anzi all'età nostra, e quando fiorivano i Buonamici, i Zaccaria, i Lagomarsini, i Zampieri, i Gozzi, i Zanotti, gli Algarotti, i Bettinelli, i Cordara, ec ec., noi scorgiamo varii di essi esaltati e protetti da un marchese Maffei, da un Salvini, da un Quadrio, un Crescimbeni, un Fabroni, un Lami, un Muratori: e mi suonan tuttora alla mente gli elogi dati in mia presenza a due di essi dal difficile e franco Parini.
Che dir dunque d'un anonimo del XIX secolo, cui tanta autorità e consenso sì generale non ritenne dal maledir gl'improvisi? Che tutto questo ignorasse, è impossibile in persona colta, qual egli si mostra; incredibile d'altronde pare ch'ei nol curasse.
"Ma il fatto è fatto, e non si può negare". br>
Checchè però ne sia del suo coraggio, ciò vero e dimostrato ri-[306]marrà per noi che poche goccie di moderno inchiostro, gettate da penna sconosciuta e sola du d'un orfano foglio, non offuscheranno una gloria divenuta nazionale, e che da Cicerone in poi conta sostenitori sì numerosi, sì venerandi e conformi.
Mi sia permessa un'altra riflessione prima di farmi a combattere corpo a corpo le ragioni dell'avversario. Quest'uso di dir versi all'impensata diverte egli gli Italiani, o gli annoia? Se li diverte, perchè tor loro sì innocuo trattenimento? "Le nazioni, diceva Voltaire, non hanno mai torto nella scelta de' loro piaceri" Gli annoia? e qual uopo d'interdire a uditor libero parlator che lo secca?
Ma tanto lungi è la nazione nostra dal mal comportarne gl'improvisi, che mentre sono la meraviglia e l'invidia degli esteri, formano essi uno de' più vetusti e geniali passatempi della più svegliata parte d'Italia, ove nacquero a un parto col bellissimo nostro idioma. Udiste mai nella state il toscan villanello cantare al rezzo non preparate rime or sotto un albero divenuto scena, or dicontro il casolaio di schiva forosetta? Trastullo così comune e giornaliero sono colà gl'improvisi, che non vi s'imbandisce rustica mensa nuziale senza il suo Jopa crinito. Oh visto l'aveste il tetro e severo Alfieri nel cortile degli Angioli, usata palestra ai popolani improvisatori! Come godeva osservator profondo a quelle gare, a quei plausi, a quei cachinni? Ragione potissima di questo italiano capriccio si è il nostro cielo che invita alla gioia, la nostra melliflua lingua che a tutto si presta, e più che altro l'indole nostra sensibile e pronta che a secondare ci porta i moti delle subite impressioni; e perciò volentieri concediamo a noi stessi quella libera e modulata espansione d'affetti che il più dolce sfogo si è della natura animata.
Queste si furono le considerazioni che mossero il celebre Wieland a proclamare nel suo giornale letterario il talento di far versi su due piedi per frutto nativo dell'italiano giardino, e il più brillante fenomeno della poetica facoltà. Così pure ne giudicò il Sismondi. (Cito stranieri per adattarmi all'ononimo che straniero si mostra coll'anti-italiana sua pretensione.) Il talento, dice il Sismondi, e l'inspirazione degli improvisatori d'Italia, siccome l'entusiasmo che vi destano nell'udienza, sono doni dalla natura impartiti a quella nazione, e segni suoi caratteristici. (De la lit. du Midi. Tom. III, pag. 93.) Provaronsi altre nazioni a cantar come noi, ma finirono, smarrite le speranze, col discendere nel nostro paese ad ammirarci. Perlochè più del sol chiare e concludentissime esser vorrebbero le ragioni di chi indurci pretenda a rinunziare a sì illustre ed antico privilegio. Vediamo se tali sieno quelle dell'articolo improvisicida.
Scende l'anonimo nell'arena collo stabilire per canone che impossibile sia far d'improviso e bene. Sesquipedale e vistosa sentenza; ma parla egli d'impossibilità generale ed assoluta? Gli si nega. Parla di relativa? Si ammette. E quanto alla prima, non è, grazie agli Dei, cotanto al basso venuta l'umana progenie, che tutto di necessità male esser debba ciò che uomo a far d'improviso s'accinga. Troppo da pianger saremmo. Tale e tanta è la quantità dei doveri, dei bisogni, degli accidenti che incessantemente bersagliano l'attiva nostra esistenza, che non solo gli estemporanei tessitori di rime, ma tutti quanti respiramo, siamo costretti sovente ad improvisare detti, [307] fatti, risorse, ripieghi, cautele; togliendoci l'urgenza del risolvere l'opportuno spazio al riflettere.
S'arroge, a ciò che non tutti gli esseri pensanti abbisognano d'egual tempo per ben vedere e decidersi. Avvi chi a volo coglie nel vero, e chi uopo ha di matura ponderazione. Alzate gli occhi al S. Rocco ne' cieli ideato e dipinto in una sola notte dal Tintoretto. Che manca a quella improvisata pittura? Non a torto fu dai giudici preferita nel concorso alle studiate opere degli emuli del Robusti, che pur erano i luminari della veneta scuola. Vide mai l'anonimo la biblioteca Riccardi del da lui proverbiato Lucca fa presto? Come tutto è ammirevole in quella gran volta! Composizione, disegno, brio di tinte, ec. ec. Eppure è opera d'artista velocissimo di mano e di mente.
Che se l'anonimo parla d'impossibilità relativa, replico, se gli accorda; e (siavi detto sub rosa) il suo caso gli è questo ed il mio; ma l'intellettuale infermità nostra non è perciò il difetto d'ognuno. Laonde, se peregrino ingegno s'incontri che colto, pronto ed esercitato sia in questa sorta di cimenti, chi mi proverà a priori che d'improviso e bene poetare ei non possa? Io non credo che per bene intender qui si voglia l'anonimo perfettamente. La perfezione è come il sole: si vede, ma non si aggiunge: il più meditato lavoro può andarle vicino, ma sarà sempre
“Proximus ast longo proximus intervallo“ br>
Ma v'è di più. Che d'improviso e bene dir non si possa, nol credevano i chiarissimi uomini da me sopra indicati. Nol credeva l'austero Quintiliano, che quel Gorgia tanto decanta, il quale olimpiche palme coglieva coll'estemporanee concioni, e scuola avevane aperta in Atene medesima. E per colmo d'evidenza nol credete nemmen voi, sig. anonimo, che confessate esservi nel parlamento inglese tre o quattro che improvisano, e bene, quantunque, dite voi, non su tutte le materie. Osservazione inutile per voi e per me, giacchè anche tra que’ che studiano a lor talento i discorsi, non si trova, nè troverassi chi bene disserti su tutte le materie. Avete poi gran torto di ristringere nel solo parlamento inglese il dono di parlare d’improviso e bene. Siate più giusto. L’antica Grecia e Roma d’ogni tempo vi rammenteranno oratori che non di rado arringavano ex abrupto o bene. Vi citerà l’odierna Francia i suioi Mauri, i Barnave, i Mirabeaux ed altri non pochi che d’improviso emersero oratori sommi, e stordirono il mondo colla estemporanea loro eloquenza. Nè la sede del bel dire, l’Italia nostra vi tacerà fra i Cassii, i Tullii e gli Ortensii, i suoi Alcaini, i Cordellina, i Gallini, i Capassi, i Patrizi, i Serio, i Mazzacchera, i Meazza, i Fenaglia, i Marchetti, i Trento, che nel precedente secolo scioglievano arringhe nobilissime da’pergami o dai rostri, figlie del momento e dell’inspirazione.
Appare dal fin qui detto che l’autorità non solo, ma il fatto e l’universale consenso atterrano l’achille dell’avversario. Per la qual cosa, se esperto verseggiatore da repentino estro compreso, me presente, s’avventi alla cetra e canti, io non mi negherò il piacere di udirlo per la insussistente considerazione che d’improviso e bene dir non si possa, o per la maligna prevenzione che tutto terso e limato riescir non possa quanto egli sciorrà del labbro. Che anzi, crescendo in lui, colla difficoltà che lo imbriglia, la gloria del superarla, mag-[308]giore sarà in me le stupore e il diletto; e quelle bellezze medesimo che per l’impeto e la spontaneità con cui sono dal poetico volcano alanciate, più mi sorprendono, minore effetto in me produrranno, qualora in elaborato poema le incontri, minore essendo allora la disposizione mia ad esser commosso, men visibile nel vate la facoltà di creare, e meno marcata ne’suoi versi quella impronta d’originalità che tinge i pensieri nel momento che nascono, e subita non hanno l’azione dell’arte moderatrice.
Avvi fra i begli improvisi e gli studiati poemi quella medisima differenza che corre fra l’opera e lo schizzo, il quadro e il primo pensiere in disegno. Non è al certo quest’ultimo un lavoro perfetto. Gettato alla presta su di un foglio qualunque nel bollore dell’invenzione, ha tutti i difetti della furia. Eppure quanti prima e dopo del Richardson intelligentissimi conoscitori anteposero quell’informe embrione alla tavola stessa comodamente condotta e con tutto lo stodio! Avvi in que’ pochi tratti un non so che di enteo, una vita, una padronanza che vi signoreggia e rapisce, e che difficilmente si conserva enll opera, quando più dalla mano dipende che dalla mente.
Ma pochi, dice l’anonimo, sono gli improvisatori di vaglia, moltissimi i meschini: ed una fedelissima pittura ci fa di questi. E che per ciò? Pochi, respondo io, sono i tragici, pochi gli epici, pochi i pittori, pochissimi gli architetti e gli scultori di vaglia, non molti gli eccellenti musici, ec. ec. Dunque non più musica, non più belle arti, non più poesia? Applicata alle scienze questa regola ottentotta, ammannisca pure l’anonimo il mazzafrusto, e scacci dai boschi di Pindo le malpate cicale. Non è per esse ch’io parlo. Dia pure sul capo a codesti accozzatori di consone desinenze, vote d’immagini e per tutto ove ei colga, coglierà bene. Ma rispetti l’arte e il rarissimo dono a noi fatto dalla favoreggiante natura: e tu fatti innanzi, o innarivabile Lorenzi, che di si nobile poema fregiasti la montana agricoltura. Sii tu per me “l’Orazio sol contro Toscana tutta”. Tua è la causa che tratto. Ben altri potrei io qui invocarne, ma tu mi basti a vincere la giornata. S’udiron mai stanze più magistrali di quelle che decrepito d’anni e giovin di mente tu improvisasti non ha molto in un crocchio d’amici? Eccovi la prima, e ritenete che non dissimili erano le susseguenti.
“L’ottantesimo inverno il crin di neve
“Mi sparge, e offusca il guardo un nuvol denso;
“L’orecchio lontanissimo riceve
“Il suon delle parole, e perde il senso:
“Temo il freddo, amo il letto, e sonno breve
“Vi colgo, e desto mi riposo e penso;
“Penso sopra del mondo che delira
“Qual sarà un giorno la clemenza o l’ira. br>
E al singolar vanto di possedere talenti di questa fatta, e al mezze di farli brillare nel pieno loro meriggio, non che al piacere d’ammirarli, pretenderebbe l’anonimo che da noi si rinunziasse? No; non parlò di buona fede.
“Io credo ch’ei credesse ch’io credessi” br>
alla ingenuità del suo consiglio; ma certo sono che non le credeva [309] egli stello. Basta sentirsi andar pei polmoni aura italiana per tosto comprendere l’erroneità e la stravaganza di questa idea. La smania di dir cose nuove, congiunta a giusta bile contro gli improvisatori cattivi, e lo scandalo ch’essi danno ai giovani poeti, guidarono la sua penna. Merita perdono e in parte lode.
Se non che conseguente alla da lui annunziata massima, e dimentico del trito assioma che l’ottimo è nemico del buono, egli vorebbe che chi ha la poetica vocazione abiurasse il cantare improviso, e chiuso nella romita stanza, poemi creasse degni del cedro. Ottimamente; ma è ella praticabile codesta idea? Nol credo. V’hanno ingegni ed ingegni. Gli uni son fatti per meditare un lavoro; gli altri per produrlo di slancio. Quelli operano per riflessione; questi per impeto ed istinto. Ecco perchè vediamo oratori e poeti che dicon bene d’improviso sorgendo, e freddi riescono poi e stentati a tavolino. La ragione consiste in che l’ingegno più che l’arte agisce in quelli; l’arte più che l’ingegno in questi. Dopo di che si ponga a calcolo l’energia che inspira a qualsivolgia parlatore la presenza di un uditorio. Quanti in campo mostraronsi eroi che al mancare di spettatori non furon più tali!
Osserviamo l’improvisatore in azione. Corona d’ascoltatori più o men colti lo ciage: il pericolo di non appagarli tende in lui tutte le molle dell’amor proprio. Agitato, cupo ed incerto, siede, s’alza, s’aggira, s’arresta, intanto che una melodia soave prelude il suo canto, e vi dispone l’udienza. Ma . . . tace l’orchestra. Egli arde, freme, trema a un tempo. È il destriero di Giobbe che odora da lungi la battaglia. Il silenzio profondo e gli sguardi di tanti in lui conversi lo avvertono ch’egli è tenuto per uomo dappiù, e già tale si crede egli stesso In questo mentre si trae dall’urna il soggetto, e gli si intima ad alta voce. Ecco il segnal della pugna. Digiuna tigre non più avidamente si scaglia sulla raggiunta preda, di quello che faccia il poeta sul non previsto tema. Altro ei più non vede chiama a sè introno le facoltà per trattarlo. Ei canta fervet opus. Voi vel vedete al fumar di quel capo, al halenar di quegli occhi, al concitato escir di quelle tremule voci. Oh portento! Le parole e le idee nascono a un punto, e si succedono colla rapidità del torrente. Se nel profluvio delle accavallate rime gli avvenga d’azzeccare qualche bella immagine, qualche pensier felice o elegante modo di dire, lo scoppiar degli applausi ne lo avverte all’istante e sopra sè stesso il solleva. Possunt quia posse videntur. Quel sentimento delle proprie forze, che coraggio si appella, lo riempie d’operosa fierezza. Grandeggia allora maggior di sè fatto; chè spariti sono per lui spine, fatiche, inciampi: signor del pensiere e de’modi di manifestartlo, egli discorre animoso dall’una all’altra idea. Dispone dell’universo: un nuovo se ne crea. Lo svolge, lo mesce, lo effigia, lo riordina come gli torna. Ma che? Nell urtarsi delle idee, nell avvampar degli affetti, rischiarato dall’entusiasmo che lo trasporta, ei trova e vede e sente ciò che ad anomio tranquillo e posato nè visto, nè trovato, nè sentito avrebbe giammai. L’incendio che lo divora si comunica all’udienza, e da questa in lui riverberando, s’accresce, e giunge al sommo dell’accensione. Il poeta non è più uomo che parli: è nume che dietro si trae l’attonita a lunanza, divenuta qual chi testimone si trovi d’inaspettato prodigio.
[310] Or mi dite di grazia: a quale mai vate nella solitaria cella racchiuso, o al raggio assiso della conscia luna, fu dato di poetare con si possenti sussidii? Dubbio non v’è che senza il divinae particulam aurae e la divite venâ, accresciuta di cognizioni in buon dato, non esiste poeta. Ma se v’ha chi di tali qualità sia dotato, qual più felice maniera idear si potrebbe per bene svilupparle? Ne appello a voi che ne’crocchi tenuti siete per bei parlatori. Dite di quanto non s’aumenti la facondia vostra in vedervi attentamente ascoltati, ed ancor più, se applauditi?
Oggetto unico delle belle arti, dice l’anonimo, è la bellezza. Spieghiamoci. Intende egli per oggetto lo scopo cui mirano? Va errato. Lo scopo delle arti belle è il piacere: mezzo per procurarcelo, la bellezza. Ma giovando inoltre allo scopo di recar piacere il meraviglioso che gli animi scuote gradevolmente, dee l’artista, quanto più può, cercarlo. Ecco l’improvisatore. Se un altro Bach, un altro Motzard, un Crammer, un Asioli, un Clementi, un Mougeles a improvisare si mettono al gravicembalo, men ragionate, men pure, men belle saranno certamente quelle loro fantasie che non sarebbero le studiate composizioni di si valenti autori. Ma la meraviglia che desta in me l’ardire di chi, per dir cosí, s’affronta con sè medesimo, e disdegnando la critica ed i rigori della scienza, si slancia nel vertice della immaginazione, affidato al solo suo ingegno, ove de’seducenti motivi, de’non improprii accordi ed una lodevole cantilena mi faccia sentire, mi reimpirà d’inusitata compiacenza. Costui col darci una maggiore idea delle facoltà insiste nell’uomo solletica l’amor proprio d’ognuno; ne pasce e promove il tacito orgoglio, essendo che senza avvedercene noi ci ascriviamo parte dell’altrui virtù, come colui che va superbo della vittoria da’suoi riportata, quantunque lontano si stesse dal campo. La mosca d’Esopo che s’attribuisce l’onor dell’aratro, non è che la copia d’un più grande originale. Proibir gl’improvisi sarebbe quindi un chiuderci una inesausta maniera di care dilettazioni, e privarci d’una portentosa facoltà che onora tanto la nostra spezie. (Metastasio let. all’Algarotti).
Ristingiamo la disputazione, e ricapitolando, conchiudiamo. Si è improvisato dacchè c’è mondo. Vi ci porta la natura. I dotti d’ogni età e le nazioni tutte apprezzarono mai sempre gl’improvisatori. O non è dotto l’anonimo, o quasi il solo fra’dotti che non gli stimi. La sua autorità è goccia rimpetto al mare. È falso che non si possa dir d’improviso e bene. Ne conviene l’anonimo istesso. Gli Italiani improvisano per istinto, e sono i soli che vantino in oggi questo talento Lo scarso numero de’buoni improvisatori non è ragione per sopprimere il genere; tanto più che il poeta improvisatore ha dei vantaggi che mancano al poeta che medita il suo parto, ottenendo più agevolmente il primo l’oggetto dell’arte che è commovere e dilettare.
Perlochè lasciamo che nella nobile gara di sollevare la bersagliata prole di Cadmo, o di illustrare la propria esistenza, segua ognuno la via che il proprio genio gli addita. Chi è nato a battagliare, battagli: chi ad improvisare, si preveda delle necessarie cognizioni ed improvisi. Questi, questi è il poeta per eccellenza. Parli di nuovo il Sismondi “C’est en eux (gl’improvisatori) qu’on voit surtout comment la poesie est un langage immediat de l’ame et de l’imagi-[311]nation” (ibi). Chi capace si sente di più durevoli frutti, armi la cetra di corde robuste, abbandoni codesto poetico giuoco, e imiti il gran Metastasio. Che vale? Improvisi lo Sgricci, e scriva visioni il Monti, terzine il Pindemonte, poemetti il Bondi e l’Arici, ec. ec.
L’esempio della Toscana Mazzei, che stans pede in uno foggiava delle tragiche scene, andava conservato e promosso. Tanto osò lo Sgricci, e n’ebbe lode. Perchè serrargli il cammino a mezzo il corso? Così facendo, si torrà al Parnaso italiano il doppio onore d’avere col numero e lo splendore delle produzioni superati gli odierni popoli tutti, e di possedere da solo il singolarissimo vanto di cantare all’impensata, per cui un non so che di sovraumana grandezza si diffonde sull’ammirato cantore “Rien dans notre siècle (così il sullodato Sismondi) ne peut representer d’une manière plus frappante la Pythie de Delphos, lorsque le Dieu descendoit sur elle et parloit par sa bouche” pag. 94.
Sieno, come lo sono di fatti, codesti estemporanei canti de’vistosi fuochi d’artifizio che colla passaggiera loro comparsa allettano l’attonito spettatore. Io non ho improvisato mai. Il farlo bene è da pochi; male, da stolti. Costoro, cui basta, come ben dice l’anonimo, una eccellentissima impudenza, sian riservati al trionfo de’trivii, ma prosiegua la città e la campagna a godere de dotti o sollazzevoli suoi vati, e l’Italia tutta a gloriarsi de’suoi. Lorenzi e di quegli altri che a lui van presso.
Aggiunga pure l’anonimo a que tre milioni d’Italiani che presente dissentire da lui, l’intera Europa che sazia non pare ancora d’ammirarci in questa difficile impresa; e se vede la sconsigliata gioventù correre senza vocazione o mezzi la non facile carriera, l’ammonisca e ritenga. Usi del battaglio di Morgante contro l’abuso; ma omaggio renda alle libere muse che ad eterna dimora scelsero la patria nostra felice.
Sul fine dell’articolo propone il medesimo che chi ha tintillo di dir versi e non sa farne di buoni, si ma di a memoria i migliori squarci degli epici nostri, ed alla foggia de’Rapsodi Greci quelli vada qua e ià declamando, siccome parte altresì non ispregiabile di pubblica educazione. Quantunque io non comprenda quale vantaggio venir ne possa alla pubblica educazione, e soprattutto alla pubblica morale, dal frequente inculcare alla nostra gioventù le divine pazzie di messer Lodovico, o i men casti amori d’Armida, o le mostruose avventure del Ricciardetto; pure non condanno un tale suggerimento. Mi prendo soltanto la libertà di osservare che le buone idee sono sì raramente nuove in questo decrepito mondo, che già da secoli i gondolieri veneziani ed i cantastorie fanno ciò che l’anonimo propone nel secolo XIX. Ma l’adottino pure gli affamati Tersiti d’Elicona, giacchè tanto li punge odio di marra e di spola. Io non m’oppongo, purchè intatto resti agli Italiani l’uso, il talento e il dritto di dilettare chi gli ascolta e sè stessi, dicendo versi che bisogno non hanno di tempo o di cote per farsi ammirare.
Sono di cuore, ec.
DANISO TIRIANO.
Notes:
- Collected by:
- FB