Italo Franchi, “L’ultimo degli improvvisatori”

This is a brief anecdotal history of the improviser Giuseppe Regaldi, a handsome and talented performer, best known for his work L’Acqua. He was considered the last of the Italian improvisers.

Performer Name:
 
Performance Venue:
 
Performance Date:
 
Author:
Franchi, Italo
Date Written:
1883
Language:
Italian
Publication Title:
La Domenica Letteraria
Article Title:
L’ultimo degli improvvisatori
Page Numbers:
8
Additional Info:
Vol. 2
Publisher:
 
Place of Publication:
Rome
Date Published:
1883

Text:

Correva l'estate del 1838, e la season era nel suo grande fervore, quando ai Bagni di Lucca fece la propria comparsa un giovanotto non peranco trentenne, bianco, biondo, coi capelli inanellati, cadenti sulle spalle, con qualcosa d'apollineo nei tratti, nei modi, nell'incesso — non già dell'Apolline effeminato di Belvedere, ma dell'Apollo virile, energico e forte, che scortica Marsia — con occhi sfolgoreggianti, ampia fronte, aitante della persona, pieno di fascini soprattutto presso le donne.

Presto si seppe che quel giovane era un poeta estemporaneo già famoso, il quale recavasi colà a dare una o duo straordinarie Accademie di quelle poesie improvvisato il cui privilegio è quasi esclusivamente rimasto all'Italia. E i tre villaggi, di cui si compongono i Bagni di Lucca gremiti di forestieri, furono subito a rumore, impazienti di godere il nuovo e gustoso divertimento che loro si preparava.

I Bagni di Lucca non erano allora quella stazione termale, quieta, famigliare che sono adesso. Il Casino da giuoco, colle sue splendide feste di ballo settimanali, la presenza di Carlo Lodovico di Borbone:

Di Lucca il protestante don Giovanni,

colla sua corte, piena di giovani e galanti ciambellani, di dame bellissime, avide di piaceri sempre nuovi, mescolate a cocottes aristocratiche provenienti da tutti i punti d'Europa, facevano di quel luogo di delizie un soggiorno estivo unico nel suo genere e di cui oggi Montecarlo offre soltanto un riflesso per certi aspetti, assai pallido.

Quella splendida baraonda, quel folleggiamento giocondo, elegante, inebriante, era variato, di tanto in tanto da una nota singolare o sinistra: ora erano le orgie notturne, perpetrate al bagliore delle fiaccole nei boschetti di catalpe e di acacia, da don Giovanni e dai più libertini fra i suoi seguaci, in perfetto accordo colle più scostumate deità della piccola Corte, agognanti ad emulare le geste della Pompadour e della Dubarry, come il sovrano si atteggiava a piccolo Re-Sole: ora rompeva i sonni un po' convulsi, un po' agitati, di quelle turbe di sedicenti bagnanti dai sensi sovreccitati, un colpo di pistola che frantumava le cervella di qualche vittima del giuoco: ora teneva gli animi sospesi per una mezza giornata il duello a morte fra il banchiere anglo-fiorentino Plowden col giovane e bel ciambellano Crock pei raggianti occhi neri d'una bionda beltà americana, miss Morning, duello che inaugurò tristemente l'apertura del Club il quale la società puritana inglese tentava porre in favore ai danni del Casino di giuoco, e su cui, poichè il vizio, ahimè, prevale sovente sulla virtù, questo ebbe causa vinta e lo fece chiudere precipitosamente colla mano spietata del fallimento.

Giuseppe Regaldi era il lion di quella società dorata, leggiera, amabile, frivola, e diede nel piccolo centro dei Bagni alla Villa trionfali accademie che gli fruttarono incassi cospicui e avventurosi successi in agoni più intimi e più misteriosi.

Pochi anni addietro, egli rammentava quei tempi nel polimetro L'Acqua, che può dirsi, in ordine di creazione se non di pubblicazione, l'ultima opera sua.

O terme, anch'io ne' rosei
Giorni che giovinezza a me sortiva
Venni fra voi con subiti
Ritmi cantando la stagione estiva;
E lusinghiere immagini
Carolando, venian sul mio cammino
Dalle balze dell'Alpi all'Appennino.

Del resto, in tutto quel trionfo ci fu un piccolo punto nero.

Il Regaldi, non molto esperto nella lingua francese, stampò un manifesto in cui era annunziato che le sue accademie sarebbero state onorate dalla presenza del duca, cui diede il titolo d' enfant d'Espagne. Il duca, benchè bon enfant, si ebbe a male d'esser trattato da fanciullo, come i figli cadetti dei Re di Francia, e fece sapere a Regaldi che gli spettava il titolo d' infante (infant) di Spagna e che correggesse l'errore.

Regaldi ebbe allora contro sè stesso uno di quei rari impeti d'ira che aveva, egli sempre sì calmo, sereno, mansueto e indulgente, talvolta anche da vecchio. Ma coll'ira non si rimedia a nulla.

Timoroso che il qui pro quo, lessicologico gli togliesse la presenza del principe e della sua corte, Regaldi si affrettò a far strappare i manifesti già affissi dappertutto, provvedendo affinchè ne fossero stampati e diffusi dei nuovi; faccenda non tanto agevole, perchè ai Bagni di Lucca una stamperia è sempre sembrata superflua; e per tutto ciò che concerne la stampa bisogna far capo all'ex-capitale del ducato, a sedici miglia di distanza.

Carlo Lodovico non pensò nemmeno a verificare se la rettificazione fosse fatta; intervenne all'accademia e si degnò di proporre egli stesso un tema all'improvvisatore: un tema all'improvvisatore; un tema degno della corte d'amore di Clemenza Isaura: Se è meglio veder la donna amata e non udirla o udirla senza vederla. Poi lo chiamò a Corte a improvvisare e lo colmò di lodi. Non credo bensì che pagasse il biglietto d'ingresso all'Accademia. Carlo Lodovico era spesso corto a quattrini, e i banchieri del Casino di giuoco gliene prestavano, purchè lasciasse sul tappeto verde sino all'ultimo soldo.

Il Regaldi non seduceva soltanto colla bella presenza, coi modi eletti, colla magia dei versi, ma anche per la sua maniera d'improvvisare.

Egli non dava lo spettacolo miserando che offrivano tutti i suoi colleghi, nessuno eccettuato, in una ginnastica dello spirito fortunatamente andata fuor di moda: egli non sbuffava, non si scontorceva, non misurava la scena a passi giganteschi, non grondava di sudore non si mandava a male; soprattutto non cantava, cioè non miagolava, non abbaiava, come facevan gli altri, accompaganti da un pianoforte scordato che teneva dietro a balzelloni alle loro strofe mugolate o belate: egli parlava come parlan tutti, con voce un po' più elevata, molto armoniosa, molto penetrante.

Tutt'al più, di tanto in tanto, ficcava le sue dita affusolate nella folta chioma che aveva rilevata sulla fronte e la rimandava indietro, come se il verso, con quella mossa, gli dovesse sgorgare più libero e pronto dalla scaturigine del suo cervello.

Questo gesto di rigettare indietro i capelli colla mano gli è stato sempre familiare… perchè i capelli non gli han fatto il brutto tiro di lasciargli la fronte sguarnita.

Quel che il tempo non giunse mai a togliergli, fu il fulgore de' suoi occhi, quello scintillamento che mostrava come il fuoco giovanile ardesse sempre dentro vivace e intenso.

Bensì, da vecchio, quando quelli occhi sfolgoreggianti si fissavano sopra un bel volto di donna e ne carezzavano lungamente le forme, essi s'inumidivano e finivano col riempirsi di lacrime.

E di quel suo lacrimare, pieno di rimpianto e di bramosia, spesso cantò negli ultimi anni:

Anch'io sospiro e medito
In vasta solitudine di lutto,
Piangendo larve e tenebre,
E l'infinita vanità del tutto.
O terme, addio: nell'acqueo
Grave umor che li stanchi occhi mi bagna;
Sciogliesi il duol che i miei sogni accompagna.

Il Regaldi ha narrato da per sè, in una prosa piuttosto gonfia, che è quella di tutti i suoi libri e che tradisce l'abitudine cattedratica, come diventasse poeta estemporaneo e come smettessse poi quell'esercizio.

Invece, adunque, di compendiare o di copiare quanto hanno scritto di lui, su tale proposito, il Carducci, il Camerini, il De Gubernatis, suoi principali biografi, riferirò puramente e semplicemente le parole premesse dal Regaldi al ricordato polimetro: L'Acqua, letto nella Università di Torino, nei giorni 5, 8, 12 settembre 1878 e stampato in un elegante volumetto di cui è quasi esaurita l'edizione, tantochè, senza un grave accidente, di cui nessuno ha mai parlato, e che lo colse a Firenze nell'autunno decorso, egli volgeva in mente di recarsi colà e di provvedere ad una edizione compiuta delle sue poesie.

Premetto che il Regaldi ha scritto egli stesso d'esser nato a Novara nel novembre del 1809, quindi tutte le altre versioni che lo fanno nascere nel 1803 in questa o quella località di cotesta provincia sono da accertarsi con benefizio d'inventario.

"Sotto li archi di questo illustre ateneo — preludeva il poeta alle sue tre letture — alla balda mia giovinezza sorrisero amorosamente le Muse, e colla spontaneità degli estri mi confortarono degli oltraggi dell'austera Temide (1). Inoltre, combattuto da cure d'ogni maniera, in questa augusta ed ospitale metropoli subalpina, la sera del 2 agosto 1833, nel teatro di Angennes, diedi la prima accademia di poesia estemporanea, e quindi, incoraggiato dai vostri applausi, errai per le città d'Italia e in altre cospicue regioni d'Europa, diffondendo poet [sic] che armonie, quali m'inspiravano le storie e i prospetti dei luoghi e l'amore costante della patria nostra.

"Tre volte le tirannidi domestiche e straniere della divisa Italia, mal comportando i concetti patriottici del mio canto e il plauso delle moltitudini, mi spinsero qua e là sulle vie dell'esilio: ond'io uscito dalle carceri di Napoli, stanco dell'Occidente andai in Oriente a cercare novelli estri e meno incerti conforti. In Grecia, nell'Asia, nell'Africa, passando fra tanti nostri esuli raminghi, nel mio pellegrinaggio quadriennale, lasciai ricordo di azioni e cantici sempre ferventi dell'amore d'Italia e del culto alla Casa di Savoia, in cui vedea l'unica speranza del nostro politico rinnovamento: e i faticosi ed utili viaggi mi furono agevolati dalla fida arte e dalle cortesie dei miei uditori, non dall'oro di mecenati opulenti, nè dal lauto patrocinio di alcun governo. Tornato in Piemonte lasciai le seduzioni e i fuggevoli trionfi della poesia estemporanea, per raccogliere i miei pensieri nello studio e nella meditazione, ossequente ai consigli di autorevoli uomini, fra i quali Alfonso Lamartine in Parigi ed Angelo Brofferio in Torino, che mi persuasero ad abbandonare i concitamenti febbrili del verso improvviso e cercare una più sincera e durevole rinomanza. Allora io narrai in prosa qualche parte dei miei viaggi, e consacrai a voi, o Piemontesi, un libro che ritrae le scene storiche ed artistiche che più spiccatamente si presentano a chi percorra la dora Riparia dalla sorgente alla foce. E datomi studiosamente alla poesia lirica, procurai d'imprimere in essa un'orma propria."

Quando il Regaldi capitò ai Bagni di Lucca, donde voleva prender le mosse per la Francia, inuzzolito dalle premure delle persone più cospicue della colonia forestiera, aveva già patito buon numero di batoste.

Due anni prima, cioè il 16 settembre 1836, trovandosi a Tivoli, venne assalito di notte tempo e lasciato per morto. Fu astio di poetastri o gelosia di altro genere? … I documenti allora pubblicati, e la asserzione del Regaldi, inducono a credere che l'Arcadia entrasse per qualcosa in quella vigliacca aggressione. Del resto il Regaldi stesso, sebbene per più giorni lottante fra la vita e la morte, volle che la cosa fosse abbuiata e rifiutò la somma, piuttosto ragguardevole, che gli fu offerta come farmaco, pregando il vescovo di Tivoli, mediatore un po' sospetto, a distribuirla tra i poveri.

E dopo aver visitato la Provenza, Parigi, Baden, Ginevra, tornato in Italia e fermatosi a Napoli, pareva dovesse porvi stabile dimora, giacchè vi stette quasi dieci anni, due dei quali passati a visitar la Sicilia, e vi potè durare persino quando v’imperversava la terribile reazione del 1849; ma Ferdinando II, che lo aveva accolto nell'intimità della reggia, s'insospettì di lui, e fattolo perquisire e incarcerare, dopo diciotto giorni permise — caso raro — ch'egli riprendesse il volo e incominciasse quelle sue lunghe peregrinazioni in Oriente che erano da un pezzo la visione dei suoi sogni, la sua fissazione da desto.

Le lunghe gite in Sicilia lo avevano già iniziato alla vita orientale. L'isola del Sole è un avant-goût del paese dei Faraoni. Un altro uomo avrebbe, come il Segato, come il Miani, vestito il costume indigeno e si sarebbe tuffato nelle mollezze di quella vita. Il Regaldi conservò intiero il suo carattere, mantenne le sue usanze e fu in tutto e con tutti italiano. Di principii si addimostrò sempre liberamente monarchico e religioso. A Kutaya, in un lungo abbocamento con kossuth, sostenne le parti di Casa Savoia e avversò Mazzini. Ad ogni modo, nei suoi viaggi, si chiarì sempre patriota e poeta.

Di quei viaggi e dei suoi studi dovrebbero essere documento le Memorie d'Oriente; ma il Regaldi non giunse mai a compierle, e oltre a parecchi articoli, pubblicati su Riviste, e riprodotti nel volume Storia e Letteratura, edito a Livrono dal Vigo nel 1879, non ne cavò che l'ultimo lavoro da lui messo insieme — anche quello, con articoli già in gran parte stampati — e dato alla luce nel 1882 dai successori Le Monnier col titolo: L'Egitto antico e moderno.

Il Regaldi si studiò d'esser prosatore, ma anche nella prosa la poesia scaturisce dappertutto e — checchè voglia dirsi — è spesso poesia d'improvvisatore, cioè facile e scorrevole un po' troppo.

La parte migliore del patrimonio letterario di lui sono le poesie, e, fra le poesie, l'Armeria di Torino, che gli valse una pensione di mille lire annue da Vittorio Emanuele e la croce mauriziana. Forse il ministro suo amico, che gli procurò e l'una e l'altra, pensò di tal modo garantirlo dalle conseguenze d'una vita spensierata e spendereccia. L'ospizio mauriziano offre, a Torino, agli invalidi cavalieri e commendatori, un asilo assai più decente di un pubblico spedale, ove si può senza angustie, aspettare nella sonnolenza dell'estrema vecchiezza la morte.

Ma la morte, invece, colse il Regaldi mentr'egli era tuttavia professore universitario a Bologna e lavorava di lima nel suo poema l'Arabo di Gisa, che il Camerini potè leggere e del quale disse che "il Regaldi vi stillava l'essenza della sua anima."

Certo sarebbe stato desiderabile, e più onorevole pel governo e più utile pel paese, che al Regaldi fosse fatta una congrua pensione vitaliza (giacchè non credo che lasci parenti) e venisse eletto professore ad honorem per lasciarlo tutto intento ai suoi studi prediletti e alle sue pubblicazioni in prosa e in poesia. L'esempio non sarebbe stato nuovo nè scandaloso. Varii professori in Italia non professano altrimenti. Ma ad ogni modo è meglio che il Regaldi sia finito professore professante, anzichè, come s'esprime il Carducci, "obbligato a prender la patente nel facchinaggio della letteratura commerciale", come avvenne al Camerini, o lasciato morir sbadigliando, consumandosi nelle ultime lotte colla fame, come accade a tanti altri, più modesti e più oscuri. Certo fu una balorda gretteria lo avere ammesso, come insigne favore, il Regaldi in carriera (è il gergo di uffico), per trabalzarlo, pari a oscuro insegnante, da Parma, ov'era nel 1860, a Cagliari, come a domicilio coatto, ove rimase dal 62 al 66, quando, per giustizia più che per favore, fu dal ministro Berti trasferito a Bologna. Eppure quanti poveri diavoli rimpiangono con ansioso desiderio un atto di quella balorda gretteria! …

Il lavoro nel quale il Regaldi ha messo maggiormente di sè medesimo, o, come dicono, è stato più subbiettivo, è nel polimetro. L'Acqua, in cui un critico imparziale e competente sentenziò: "esservi versi bellissimi, belli, brutti e così così, di tutto un poco" concludendo: "trovansi nel Regaldi quella perenne giovinezza di spirito veramente anacreontica, che ferve nella sua poesia; quella fantasia ricca, abbondante, innamorata sempre di tutto ciò che è buono, dalle più alte verità morali, dai paesaggi pittoreschi, fino alle belle donne al vino generoso; quell'armonia musicale che risuona sempre ne' suoi versi, i quali non sono d'alcuna scuola perchè le ricordano tutte, ma rivelano almeno un temperamento sano, felice, vigoroso, che ha traversato una lunga vita senza fiaccarsi, senza contaminare nè l'arte nè sè, senza perder l'estro, nè il coraggio, nè la fede, nè il buon umore, senza smettere mai la fedeltà agli amici e la tolleranza benevola agli avversarii. Questo poeta dell'Acqua non ha cantato le acque marziali perchè non ne ebbe bisogno mai. È vecchio, ed ha il fegato sano. Esempio memorabile ai tanti adolescenti fegatosi che, appena nati, contristano sè e gli altri colle loro rabbiuzze, che vogliono parer magnanimi disdegni e sono per lo più itterizie impotenti."

Nell'Acqua, come dice il critico, c'è di tutto. Ci sono ricordi misteriosi o palesi di belle donne e di fanciulle che furono, in ogni tempo, inspiratrici al poeta; vi è soprattutto, a proposito d'acqua, un inno al vino, in cui egli descrive stupendamente e s'augura e si ministra l'ebbrezza,

Chè d'ogni duol l'oblio nel vin si beve;

E prorompe:

Fui baldo giovane
Dal crine biondo:
Ero fra i cantici
Signor del mondo;

Or che vo trepido
Col crine bianco,
Sento che brontola
Morte al mio fianco.

Tento dei pampini
Colla virtute
Il brio riprendere
Di gioventute,

Tento coi calici
Del vino antico
Svegliarmi agl'impeti
Dell'estro amico.

Che val fra i brindisi
Delfica lode,
Se più nei palpiti
L'anima non gode?

Se, quando estatico
Guardo un bel viso,
Qual vecchio stolido
Io son deriso?

Se già passarono
Li anni fiorenti,
E sol mi restano
Ore squallenti?

Lasciami, o magica
Musa, nel pianto;
L'ultimo io medito
Funebre canto.

E scrive il vero.

Uno dei conforti del buon Regaldi fu banchettare con due o tre intimi amici, con amiche, potendo. Egli assisteva sorridendo, allo scoppiettio dei frizzi, eccitava l'allegria quando stava per spegnersi; poi, a poco a poco si faceva malinconico, inclinava viepiù la già curva persona, e colla sua fida bottiglia davanti di vin generoso del paese natio — Barbera, Barolo, o Brachetto si assopiva nel suo seggiolone a capo di tavola. E allora rammentava davvero il vecchio di Coo, negli ultimi suoi simposii, ed a cui tanto somigliava nel suo culto alle donne, agli amori, più la saldissima corda patriottica che in lui vibrò sempre energica, sincera, disinteressata, generosa.

"Avea fatto arco della schiena" da parecchi anni — l'ho già detto — e non potea più camminare fuorchè col soccorso d'amico braccio. Spesso si soffermava, se era astretto ad andare a piedi, e gridava: "Ahi! Ahi!.." in modo compassionevole, come se camminando soffrisse nelle gambe atroci dolori.

Eppure a volte dimenticava quell'incomodo, e procedeva spedito, baldo e quasi rimpettito, se lo agitava impetuosamente un improvviso moto d'animo.

Ricordo un fatto.

Nell'ottobre del 1876, trovandosi egli in gita a Firenze, ove tornava spesso e volentieri, alloggiando sempre alla antica locanda-trattoria della Luna, in via Condotta, ove si faceva salire al terzo piano, in una modestissima e remota cameruccia, gli fu recapitata una lettera alquanto misteriosa che gli chiedeva un convegno a giorno e ad ora fissa per faccenda della massima importanza.

Il Regaldi non aveva più nemici nè invidiosi; non era dunque da rammentare l'aggressione patita a Tivoli. Ciò non dimeno quel mistero lo teneva inquieto, e vedeva avvicinarsi con una certa apprensione il momento del colloquio a cui aveva aderito.

Ad ogni buon fine volle seco un amico gagliardo di braccia.

All'ora precisa designata, scese da una carrozza, nel vestibolo della locanda, ove il Regaldi e l'amico stavano aspettando nello stanzino del portinaio, un ometto ben vestito, arzillo, asciutto, rubizzo, che chiede, impaziente e concitato il poeta.

— Son io — risponde stupito il Regaldi.

E l'altro, cavando fuori l'edizione diamante delle sue poesie, prorompe in parole così calde d'ammirazione e d'entusiasmo, che il Regaldi finisce coll'esserne tutto commosso.

Cotesto bel tipo era Giuseppe Spandri di Verona, autore d'un'opera intitolata Venti anni di poesia e filosofia politica, il quale allora narrò come, da quarant'anni dacchè aveva perduto sua moglie, s'era fatto proponimento, per celebrarne ogni dieci anni l'amata memoria, di stringere la personale conoscenza di una persona illustre, da lui grandemente stimata. Alla fine del primo decennio la visita dello Spandri era toccata al Pellico, dieci dopo al Lamartine, adesso era la volta del Regaldi. Lo Spandri non veniva per altro scopo da Verona in treno diretto! …

E qui nuovi sfochi d'ammirazione entusiasta, nuove proteste di devozione e d'affetto.

Dopo di che, lo Spandri, ripreso il cappello e il bastone, e chiesto il permesso di dare un bacio al Regaldi, s'incamminò verso la porta di strada.

— Adesso torno a Verona contento! — egli esclamò.

Ma il Regaldi non la intendeva così. Diritto, ringargliardito, senza pensare alle gambe, egli si diè a salire le scalette della locanda a quattro a quattro, gridando al nuovo amico e all'antico:

— Su! Su! … seguitemi. Non possiamo dividerci così! Dobbiamo vuotare una bottiglia insieme! …

E la bottiglia fu vuotata.

Tanto il Regaldi era sensibile alla lode! Tanto da questa gli venivano e conforti e vigori!

Ma soprattutto era sensibile alle lodi e alle cortesie dimostrategli da belle donne.

Delle donne leggiadre egli cercava sempre la compagnia: non poteva starne senza. Anche se in mezzo alla via s'imbatteva in una bella e vispa popolana, si fermava, guardava estatico, e le dirigeva quasi sempre sommessamente un gentil complimento, magari in versi.

Per due anni, a Bologna, era rimasto di casa in via de' Vitali, perchè abitava dirimpetto a lui una bella signora, valentissima suonatrice di pianoforte, alle cui melodie

Subita fiamma mi sorgeva in petto
E quasi leva i concitati carmi
I campi m'invadean dell'intelletto.

Poi, era andato ad abitare il terzo piano della casa di numero 6 in via d'Azeglio, e colà egli morì il 14 febbraio. Ma poteva dirsi morto da dodici giorni, giacchè il dì 2, era stato colto da un colpo d'apoplessia che lo aveva quasi interamente paralizzato.

Ahimè! … Non era quella la morte d'Anacreonte ch'egli si era desiderata! …

Forse, come avvertii in prinicipio, una forte scossa avuta in Firenze, nell'autunno scorso, aveva contribuito al suo fisico scadimento.

Alla fine d'uno di quei pranzi fra amici ed amiche, nei quali gli era tanto gradevole il contemplare i belli occhi nerissimi di una novellatrice gentile, un pò storidito dalle libazioni, era salito nella sua cameretta al terzo piano dell'albergo della Luna. Colassù nella notte, agitandosi, aveva ruzzolato il letto e non potendo aitarsi, nè riuscendo a far udire la propria voce, era rimasto disteso a terra, ferito nella testa, sino a tarda ora della mattinata.

Cotesto accidente lo aveva conturbato, e invece di andare a Torino, era tornato a Bologna, sotto fida scorta, nè più se n'era mosso.

Il Carducci, accompagnandone la salma alla stazione per Novara con numerosa schiera di colleghi, di amici , di studenti, parlò di lui come in parecchie circostanze ne aveva scritto, chiamandolo "l'ultimo dei trovatori"; ed ultimo può ben dirsi, giacchè Giannina Milli, da lui consacrata improvvisatrice nel 1843 — precisamente quarant'anni addietro — conduce in tranquilla e muta ritiratezza la vita, mercè il ducato giornaliero vitalizio lasciatole dalla munificenza del pro dittatore Giorgio Pallavicino.

Ed il governo volle, anche lui, ricordarsene dopo morte, incombensando il Prefetto di rappresentarlo ai funerali a Novara, "per onorare uno di quei valorosi cittadini e sinceri patrioti, che concorsero coi loro scritti a diffondere nella gioventù l'affetto per l'indipendenza e per l'unità della patria."

Italo Franchi

(1) Fu respinto agli esami di legge il 1 di agosto 1833, e il giorno seguente fu laureato poeta dal giudizio del pubblico.

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